MACCHE’ NATURA MATRIGNA: SOLO FIGLI INGRATI. PECULIARITA’ ED ECCELLENZE DA SALVARE, PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI

Basta lagne. Basta analizzare le realtà, economiche e non, del nostro territorio sempre in chiave pessimistica, del tipo: il calzaturiero va male, il turismo langue o tutt’al più è solo un “mordi e fuggi”, il territorio e i nostri fascinosi borghi a causa di scelte sciagurate sono divorati dal cemento, la politica è preda di incapaci avidi e disonesti e così via. Basta, ci siamo stufati. Per una volta vogliamo girare la medaglia e vedere se l’altro suo lato è più bello, se offre qualche spunto di consolazione e di speranza. Insomma, se volessimo cambiare l’andazzo negativo, avremmo qualche risorsa su cui puntare? La risposta è: cavolo, se le abbiamo! Perché, nonostante tutto, viviamo in un paradiso che, seppur violato, massacrato, depredato, abbrutito, può ancora essere salvato e salvarci. Basta volerlo e crederci, pensare positivo.

Ma da dove ricominciare? Ad esempio, dal territorio stesso, inteso proprio come terra che dà frutti e che eroicamente ancora offre peculiarità infinite di prodotti che potrebbero, e possono, rappresentare nicchie di mercato caratterizzanti e redditizie. Perché, inutile negarlo: il marchigiano forte e gentile ha l’anima contadina e le vesti dell’imprenditore in altri settori sono travestimenti che gli vanno stretti, anche se ci sono validi esempi da non cestinare. Allora, perché non ricominciare dalla terra? La terra non ti tradisce mai se tu non la tradisci, e in ogni stagione è pronta a darti i suoi tesori, a patto di piantarla di seminare cemento e pannelli solari.

Le stagioni, dicevamo: citando il “giovane favoloso” di Recanati, anche “la presente e viva”, ovvero l’autunno, sappiamo bene quanto sia ricca di frutti. Perché anche se (continuiamo a citare) “la nebbia agli irti colli” ancora non vuole salire, la stagione è arrivata, e non si dimostra certo meno bella e generosa delle altre: colori, profumi, frutti, atmosfere evocatrici di sensazioni profonde, quelle che ti sono rimaste impresse nell’animo fin da quando eri bambino. Un tripudio: la terra, quasi fosse un saluto prima del silenzio dell’inverno, ci regala i suoi tesori stupendi, dolci frutti come l’uva da saziarti l’anima chicco a chicco o da mettere a “ribollir nei tini”; oppure, su, nei monti azzurri, farinose castagne da cuocere al fuoco, a riscaldarti le mani e il cuore. Perché la terra è Madre, e sa di cosa hai bisogno, in ogni stagione. Ma sono tutte cose che abbiamo dimenticato, i ritmi naturali delle stagioni e dei suoi frutti sono stati spazzati via dalla tracotanza asettica e insapore degli scaffali dei supermercati, dove ogni stagione è contemporaneamente e innaturalmente presente tutto l’anno. E non ci facciamo più caso, ci sembra naturale ciò che di naturale non ha più nulla. Inutili nostalgie, si sa, il mondo va avanti.

Ma è davvero un bene? Ci sarà un motivo se un tempo la natura aveva i suoi ritmi e dunque anche la vita degli uomini. Era questo che dava senso e qualità alla vita, anche in termini di salute, perché andare contro natura fa male, al corpo e all’anima. Questo era il periodo in cui si cominciava a nutrirsi diversamente, per prepararsi al freddo. In campagna, e non nei salumifici industriali, si uccideva il maiale, del quale tutto veniva utilizzato, perché l’inverno era lungo e freddo e servivano scorte di cibo che desse anche calore. Sulla tavola cominciavano a comparire i bolliti, i brodi fumanti, all’insalata si sostituivano le erbe cotte, si respirava il profumo delle carni alla brace… D’accordo, indietro non si torna, ma prima che sia troppo tardi salviamo almeno le nostre peculiarità alimentari sopravvissute, quelle che potrebbero riportare un po’ d’ossigeno all’economia del territorio. Insomma, le cosiddette nostre “tipicità”.

E in quanto a questo, l’autunno non scherza: le castagne di Smerillo e Montefalcone, le mele rosse delle nostre valli, le erbe trovate della campagna, la carne di maiale e di cinghiale dei nostri monti, i funghi, i tartufi, le quasi estinte trote Fario di Amandola… E che dire del nostro olio? Altro che quello a “offerta speciale” degli ipermercati, misteriosi miscugli di non ben identificati oli “provenienti dall’area della Comunità Europea”, come recita l’etichetta. E il vino fatto con l’uva dei nostri vigneti? E il nostro vino cotto? Altro che passito di Pantelleria. Insomma, se non riusciamo a capire che il cibo è anch’esso la nostra cultura, che viviamo in uno dei posti più belli e ricchi di risorse naturali, e che è ora di piantarsela di rovinare tutto per giochi di potere e meschini interessi, allora non meritiamo tanta fortuna. E se la natura si ribella fa bene: reagisce solo all’ingratitudine e all’idiozia di chi non ha saputo rispettarla e far fruttare i suoi doni. Nel senso: va a far del bene agli asini

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